Di colpo l’inverno sembra avere preso il posto di un autunno molto breve. Per me questa è la stagione dell’Orientamento. Le settimane sono talmente piene che sto ponendo poca attenzione a ciò che vivo mentre lavoro. Il rischio è di mettere il pilota automatico e smettere di essere consapevole mentre agisco. Diventa un fare, certo sempre professionale, ma un fare mancante di qualcosa: l’essere.

Nel coaching c’è uno stadio di apprendimento chiamato: l’eccellenza. Quando si entra in questa dimensione si mantiene attiva l’attenzione, anche quando si è ormai expert o dei fuori classe nel proprio ambito. Tutto ciò è possibile grazie a una forma di pensiero di altissimo valore: la metacognizione. È proprio grazie ad essa che si riesce ad osservare, riflettere, analizzare i processi del nostro pensiero. In questo modo è possibile ottimizzare le funzioni cognitive, integrarle con nuove strategie, allenarle quando fragili.
Il costrutto della metacognizione è stato introdotto da Flavell (1976; 1979) negli anni settanta. Seppure rappresenti uno tra i processi più studiati nell’ambito della ricerca cognitiva e della psicologia scolastica, tuttavia si fatica a utilizzarlo. Essere metacognitivi richiede un faticoso allenamento.

Flavell definisce la metacognizione come la consapevolezza delle strategie attuate nello svolgimento dei processi cognitivi come memoria, apprendimento, attenzione, elaborazione delle informazioni. Ad un livello gerarchico superiore rispetto alle attività cognitive specifiche vi è un processo di controllo, di supervisione e di coordinamento, che consiste appunto nella metacognizione.
In poche parole la metacognizione ci consente di:
- Prevedere quella che sarà la propria performance
- Pianificare ed eseguire operazioni cognitive compiendo i necessari aggiustamenti
- Monitorarci negli apprendimenti
- Disporre e riorganizzare il giusto quantitativo di risorse attentive e mnemoniche
- Autovalutarci
Aggiungerei altro a tutto questo: ho sperimentato che la metacognizione è una preziosa alleata dell’improvvisazione.
Improvvisazione???
Nelle ultime due settimane mi sono ritrovato più volte a variare quanto avevo previsto nelle mie scalette. Grazie al pensiero metacognitivo, paradossalmente ho trasformato l’improvvisazione in una tecnica che riesco ad accettare con tranquillità, qualcosa che si attiva consapevolmente perché funzionale al processo.
Aggiunge il mio correttore di bozze: “Credo che una buona metacognizione consenta di assumere quella che definirei una flessibilità cognitiva: conoscere, saper gestire e controllare i propri processi cognitivi al meglio insieme alla padronanza della materia, delle metodologie e approcci, consente come direbbe anche C.Cornoldi parlando di metacognizione, di problematizzare e attivare conoscenze implicite, di coordinare al meglio i processi proponendo anche nuovi piani.”
Sottolineo!! Improvvisare non significa ignorare l’argomento da affrontare o non essere preparati. Il primo passo per improvvisare è essere disposti a cambiare binario nel momento in cui la situazione evidenzia un’opportunità prima ignota.
- La prima regola per valutare se improvvisare, è porsi in ascolto e in osservazione della situazione e del sistema a cui si sta partecipando.

Ad esempio: in settimana mi sono ritrovato a svolgere un intervento di ricerca attiva al lavoro in un corso di formazione “anomalo”. Più del 60% dei partecipanti parlavano l’italiano a un livello molto basso, mentre il restante 40% necessitava di un empowerment nell’abilità comunicativa. La mia lezione prevedeva nella fase iniziale, un icebreaking della durata di circa 20 minuti: scegliete un oggetto che vi rappresenta o raccontate la vostra fase di vita attuale.
Mi sono reso subito conto che la richiesta era troppo elevata per il gruppo. Così ho deciso di improvvisare, per evitare nei presenti una frustrazione che li avrebbe portati a chiudersi più che ad aprirsi all’apprendimento.
Sono partito dal chiedermi:
- quale bisogno hanno queste persone?
In quel momento mi è tornato in mente un passaggio delle Meditazioni di Virginia Satir che dice:
“Due parole sono diventate molto importanti per me in questi ultimi due anni: affamato e ferito. Posso tradurre ogni cosa della gente fa l’uno all’altro nei termini di fame e di ferite. La fame ha molti livelli, tutti i livelli delle mandala: fame d’amore, fame di riconoscimento, fame di essere visto e udito, fame di stimoli, fame dappertutto. Trovo l’idea della fame più appropriata che non quella del bisogno…”
In effetti in aula più che un bisogno, c’era una gran fame di Condivisione e di Comunicazione.
Per facilitare la Comunicazione, i partecipanti andavano stimolati ad attivare una delle risorse fondamentali in questo processo: la curiosità. Anzi la curiosità per l’altro.

Da qui è stato un attimo passare al gioco delle domande semplici. Un esercizio di comunicazione che consente di manifestare interesse per l’altro. La formazione dedicata alle tecniche di ricerca attiva del lavoro si è trasformata in un laboratorio teatrale di narrazione: raccontarsi agli altri ed entrare in contatto con loro.
Il feedback migliore mi è arrivato involontariamente durante la pausa quando passando davanti alla macchina del caffè mi ha attirato la conversazione dei partecipanti: il gioco delle domande continuava a produrre risultati.
Ci sono però situazioni dove improvvisare può essere molto pericoloso ed è meglio rimanere nel già previsto. Avviene soprattutto quando l’atmosfera è ingessata, e si percepisce che chi è presente è poco motivato a vivere un’esperienza di apprendimento dinamico. Tuttavia, una volta fissati i punti di inizio e di fine, è veramente divertente proporre del fuori campo ed osservare cosa generi il gruppo.

A volte si sviluppa un’atmosfera di creatività sociale grazie alla quale si innesca una dimensione di flow diffusa. Si tratta di uno stato in cui la persona si trova completamente assorta in un’attività per il suo proprio piacere e diletto, il tempo vola e le azioni, i pensieri e i movimenti si succedono uno dopo l’altro senza sosta.
Quando accade mi sento alle stelle, e questo stato emotivo mi tenta, quando possibile, a riprovarci.
C’è molto altro sull’improvvisazione.
È un modo per essere pronti ad affrontare ciò che non era previsto nell’incontro con l’altro. In queste settimane sono stato ingaggiato per svolgere dei colloqui di coaching con un gruppo di adolescenti. Si tratta di momenti che hanno lo scopo di motivare e attivare all’apprendimento. Anche in questo caso ho elaborato un percorso tipo, ma mi sto accorgendo, al di là dell’inizio e della fine, che nel mezzo c’è ogni volta la scoperta di un mare, profondo e blu. Il mare profondo e blu mi disorienta, sebbene sia da anni un sub. Mi spaventa perché la profondità è ignoto ma allo stesso tempo attira.
Quando si è in immersione basta direzionare la testa verso il basso per scendere come pietre buttate da un ponte. Occorre porre attenzione. Ho incontrato un adolescente silenzioso che mi ha detto di essere stato invitato al percorso perché fatica a parlare. In effetti tra la domanda e la risposta passava un tempo interminabile. Per un coach è il tempo dell’attesa. Quando ho fatto il percorso di coaching una delle mie aree di miglioramento era proprio saper restare in silenzio. Contavo sotto la sedia almeno fino al 6 prima di riprendere. In questo caso il tempo andava ben oltre.
Ho chiesto allora: cosa succede fra la domanda e la tua risposta?

Nessuna risposta.
Così mi sono alzato e ho preso dei post it sui quali ho scritto:
ho paura del giudizio
ho paura di non piacere
ho paura di non essere all’altezza
ho paura di non avere le capacità
Poi ho chiesto a quell’adolescente di leggerli e scegliere fra i quattro post-it quello che rispondeva alla mia domanda, sempre che ci fosse.
La sua mano mi ha restituito: ho paura del giudizio.

Ecco ci siamo, ho pensato! Stiamo scendendo. Allora ho messo in atto la mia procedura da sub: respirazione profonda, ascolto attivo, attenzione ad ogni segnale e siamo scesi insieme. Sotto c’era una barriera corallina fantastica. Sono rimasto meravigliato.
Poi quando siamo risaliti e mancava ancora poco alla fine, l’ho buttata lì per gioco:
Dimmi qualcosa di bello per chiudere!
L’adolescente è rimasto in silenzio per un bel pò, crucciato alla ricerca di una risposta a una domanda imprevista.
L’ho guardato e gli ho detto:
Non con la testa, con il cuore!
Ha detto solo una parola guardandomi negli occhi: grazie.
Ci sono occasioni in cui una parola ha il potere di generare una grande energia.

Ci sono occasioni in cui improvvisare significa affrontare con coraggio le sfide della propria missione.
Finalmente, ho rallentato e mi sono riorientato. La scrittura mi aiuta ad attivare la metacognizione. Fermare le bocce e ricostruire la partita effettuata fino a questo punto prima di riprendere il movimento, la stagione.
La stagione dell’orientamento è ancora lunga!
Su di me non ha mai fine.