METACOGNIZIONE ed APPRENDIMENTO: DUE CARDINI DELL’ORIENTAMENTO

“Un buon insegnante è colui che si rende progressivamente superfluo” Carrunthers

All’alba della fine di un anno scolastico, o meglio delle mie ore all’interno dell’istituto professionale dove ho avuto l’onore e l’onere di accompagnare i ragazzi in “Laboratorio atteggiamento e relazioni”, dedico questo momento ad un esercizio pratico: fare meta cognizione, per apprendere. Cardini dell’orientamento, ci ho giocato durante le mie ore per aprire spazi di pensiero e di auto consapevolezza, partendo dalle definizioni.

 

Metacognizione: pensare oltre e dare un significato alle esperienze, magari apprendendo di sé, del contesto, delle persone, che con te, hanno fatto un viaggio.

 

Apprendimento: cambiare ove sia necessario in virtù della comprensione di nuovi elementi; accrescere le conoscenze rispetto a materie e tematiche.

 

Trasformare un processo in un momento di apprendimento passa attraverso il porsi, in maniera periodica, domande di focalizzazione, esplorando, elaborando ed agendo le risposte che emergono all’interno della riflessione.

ESPLORARE IL MONDO SCUOLA

Domande:

  • Che senso ha per te stare all’interno di un istituto professionale?
  • Come farai a misurare l’apprendimento dei tuoi studenti?
  • Come ti senti ora? E come ti piacerebbe sentirti alla fine dell’anno?

Ricordo ancora il tremolio delle gambe quando sono arrivata a scuola per la mia prima ora di lezione. Quando ho mandato il messaggio “nell’aula in cui devo entrare stanno facendo un casino atomico”, la paura, l’incertezza, il perfezionismo ricercato nella preparazione delle prime lezioni.

 

“Ma prof, la sua è l’ora di ricreazione, giusto?” “E’ qui per i casi umani, vero?” i primi commenti … che smontavano già le risposte alle domande che mi ponevo e l’entusiasmo di una nuova avventura.

La ricerca del “perché mi ci sono imbarcata?”, l’aggrapparsi con fiducia a quello che ritengo sia la base per orientare… e perché, no per insegnare: tutti hanno un potenziale. Impossibile che i ragazzi spavaldi e sprezzanti di qualsiasi forma di autorevolezza non ne abbiano, almeno uno.

Ascoltarli ed osservarli nelle prime ore, cercando di trasmettere informazioni, provando ad incuriosirli ha fatto si, che le radici del pensiero “tutti hanno un talento” andassero ancora più in profondità.

 

Primi apprendimenti:

  • Il senso di stare li è diventato quello: farli ricredere sul fatto che “siamo dei casi umani”. E mentre lo scrivo lo realizzo in maniera ancora più chiara e definita. Le ore passate con “i miei casi umani” hanno avuto tutte l’obiettivo di svelare e mettere luce nuova sulle diverse identità.

 

  • Ogni persona che è passata nella loro classe ha contribuito a dare una forma mentis a ragazzi adolescenti e che salita quello di provare a guardarli con occhi diversi dal pre giudizio “ecco… questi mi faranno morire…”

 

  • Gestire il mio senso dell’ironia per non rispondere a tono alle provocazioni continue ed “impostarmi” con il cappello da prof. … con una nota da orientatrice…
VIVERE IL MONDO SCUOLA

Domande:

  • “Laboratorio atteggiamenti e relazioni” cos’è? Cosa non voglio che sia?
  • Come mi piacerebbe che fosse e cosa vorrei condividere con i ragazzi?
  • E io? Come orientatrice cosa posso mettere in campo?

 

L’ideale, fortemente desiderato, è stato smantellato. Il perfezionismo è stato lasciato, ben presto, alla porta per procedere con il passo dell’eccellenza. La differenza, tra perfezionismo ed eccellenza, la scopri molto presto con “i miei casi umani”.

 

Il perfezionismo, è troppo rigido per essere attivato con ragazzi completamente fluidi, che hanno la loro vivacità intellettuale, che si muovono nell’aula e che intervengono in maniera scomposta, e in alcuni casi assurda. Il perfezionismo della scaletta delle lezioni ti porta all’immobilismo, all’atteggiamento “signorina Rottermaier” come la chiamano loro.

 

L’eccellenza, permette, invece l’errore. Ti lascia essere umana. E si, se dici una fesseria, loro possono sentirsi un po’ più vicini, da quel mondo da cui cercano di differenziarsi. L’eccellenza è morbida. L’errore permette la riflessione. E di errore ne ho compiuto uno grosso, durante una lezione. Ero completamente coinvolta nella discussione con alcuni ragazzi e in maniera distratta ho acconsentito ad un ragazzo di prendere il telefono e rispondere.

 

Beccati dal direttore: lavata di capo, per me e per lui.

Mai come in quel frangente la lezione è stata proficua. Bhe, la materia facilita. Ma abbiamo impostato la “chiacchierata” su ruoli, responsabilità ed atteggiamenti comunicativi. 

 

Se riguardo indietro, le lezioni meglio riuscite sono state, in effetti, quelle meno preparate, in termini di scaletta.

 

Quelle più interessanti, quelle in cui i ragazzi hanno detto ciò che pensavano, in un setting non frontale. Quelle più frustranti quelle in cui ho avuto la sensazione che nessuno portasse via nulla, per poi scoprire che ci vuole tempo per sedimentare gli apprendimenti.

 

 

Apprendimenti in corso d’opera:

  • Lo stare, senza per forza dover dare informazioni e sfruttare il contesto e quello che emerge all’interno dell’aula
  • L’agire “l’assenza di giudizio” e il passare il concetto, accogliendo anche alcune terribili bestialità.
  • L’allenamento della creatività per riformulare, per prendere la parte bella ed importante: perché dietro ad ogni cosa detta, c’è un sentimento, un bisogno, un desiderio.
  • Il potenziare l’autostima e cambiare la percezione di “utenti, scansafatiche” dei ragazzi

L’apprendimento più grande: lo stare nel processo.

 

A casa sono cresciuta con il mantra “tu metti dentro (in termini di dare l’esempio, raccontare, curiosare, raccogliere informazioni) che qualcosa poi verrà fuori (maturerà)”. Ad inizio esperienza un professionista mi ha detto “chi finisce in burn out a scuola, nel 90% dei casi sta sul risultato, non sul processo”.

 

L’adrenalina del processo, lo starci, il viverlo. E la forte consapevolezza, data dall’esperienza che la scuola va co – costruita con chi la vive, per far si che l’apprendimento sia pieno: cognitivo, emotivo e sistemico.

 

L’avere l’onore di poter vivere questi momenti ha rafforzato la convinzione che Senge e Goleman ci hanno visto giusto e che creare le condizioni, anche minime per far sperimentare tutte e tre le dimensioni è un arricchimento reciproco.

 

Orientare ed insegnare: forse la distanza non è così ampia. Forse. L’accendere il fuoco della consapevolezza, l’attizzarlo con il soffio del vento di gruppi energici e ravvivarlo con la legna del “contribuiamo tutti a qualcosa di più grande” è la base per far sì che l’insegnamento attecchisca con più profondità, le informazioni non siano solo informazioni, e i ragazzi siano protagonisti del proprio apprendimento.

BATTUTE FINALI

Domande:

  • E alla fine dell’anno come ti senti?
  • Che cosa lasci? Che cosa prendi?
  • E adesso?

 

Con estrema onestà mi posso dire di non essere stata la prof perfetta, con i concetti detti sempre in maniera chiara e corretta, senza intercalari un po’ violenti, con le schede sempre apposto. No, non sono stata la prof delle informazioni e delle verifiche sempre corrette puntualmente e con il registro apposto, anzi.

 

Ma oggi, posso dire che quando arrivo in classe, la mia non è più l’ora di ricreazione e “i miei casi umani” (non tutti, per fortuna) hanno un’autonomia nel pensiero e nell’agire verso obiettivi semplici e condivisi che ad inizio anno non avevano.

Sanno dire ciò che pensano e riescono a farsi un’idea seppur semplice, su alcuni argomenti. Si interessano un pochino di più al chi sono e hanno cominciato a costruire, o meglio, ridefinire la loro identità.

Quando li guardo provo orgoglio e fierezza, perché hanno avuto il coraggio di credere in me e nella relazione che abbiamo costruito insieme.

 

E adesso? Avviato un processo, ai posteri l’onere e l’onore di continuarlo. Soprattutto ai ragazzi, che ringrazio per questa intensa, sfidante e arricchente avventura.

 

 

Di Sara Marchiori

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